Le postille del poeta Clemente Rebora lettore della Commedia per tutta la vita
Per gentile concessione pubblichiamo in estratto l’articolo tratto da “L’Erasmo”, rivista di cultura diretta da Carlo Carena, su un aspetto particolare del dantismo reboriano a cura di Roberto Cicala, uno degli studiosi che negli ultimi anni hanno proposto ai ricercatori nuove tracce per capire il poeta e la letterfatura novecentesca alla lcue dell’attenzione verso la Commedia
Quando, nell’estate del 1955, Clemente Rebora scrive che «da eterna Poesia a noi vien Dante / per incuorar su uella traccia l’arte / che al viver vero, se vera, solleva»», sono ormai lontani gli spavaldi e innovativi Frammenti lirici pubblicatigli nel 1913 da Prezzolini nelle edizioni della “Voce”. Ora è malato e balbettante dopo la «scelta tremenda» di una sofferta vocazione matura. A cavallo dl 1930 aveva distrutto le carte di una vita dedicata alla letteratura e si era fatto sacerdote rosminiano, ma non era riuscito a distruggere il poeta che era, e ancora è, in lui. L’anziano scrittore se ne accorge quando l’«eterna poesia» di Dante riemerge, dopo lungo silenzio, componendo su invito dell’editore Vanni Scheiwiller alcuni versi offerti, fin dal titolo, «per Ezra Pound», con un omaggio spontaneo all’«Amore che muove il sole e l’altre stelle». La devozione dantesca di questo testo non è infatti così lontana dall’eredità della Commedia che aveva animato la lingua dei suoi Frammenti di quarant’anni prima; e non a caso il giovane Rebora avrebbe voluto intitolarli dantescamente I guinzagli del Veltro.
Sono fondati sulle suggestioni dantesche il vocabolario aspro e tagliente e le metafore ardite con cui la critica ha collocato alla base del Novecento letterario italiano l’opera del milanese Rebora (la sua vita, iniziata nel 1885, s’interrompe nel 1957 sulle rive di Stresa). Si pensi alla rappresentazione metaforica della città, Milano, nei Frammenti (due versi fra i molti: «E spràngan le soglie nell’arido giro / Del losco sfasciume») per mezzo di quei connotati sonori e petrosi che Dante aveva usato per Malebolge. Non serve, tuttavia, la sola formazione umanistica a spiegare quest’influsso; l’Alighieri non è una semplice fonte: è una lettura costante nel tempo tanto da assurgere a modello letterario e ancor più spirituale in tutta la creazione poetica reboriana, investendo anche le opere dell’ultimo periodo, quando la parola umile e timorosa del poeta infermo s’innesta sulla verità della Parola rivelata. Ne sono testimonianza le differenti e tormentate postille autografe, a penna o a matita, che hanno consunto gli spazi nell’interlinea e nei margini di una Divina Commedia conservata nell’Archivio Generale Rosminiano di Stresa.
Queste chiose personalissime sono caratterizzate semanticamente dalla differenziazione dei colori usati: sia penna a inchiostro nero sia lapis, naturalmente nero ma anche di colore rosso e blu grazie all’uso della tipica matita da correzione degli insegnanti, impiegata con un curioso significato cromatico, rispettivamente positivo e negativo. Si tratta di annotazioni che seguono il dibattimento interiore del poeta creando in molti casi nodi interpretativi, soprattutto per la frequente sovrapposizione di segni, correzioni, rimandi o di intere postille senza chiaro riferimento a uno o più versi del poema. Alle chiose si sommano cartigli anch’essi manoscritti (oltre a ritagli di giornale, per esempio un elzeviro di Pastonchi su Francesca da Rimini), inseriti di rado ma a ragion veduta tra le pagine del volume, che rivela segni di frequentissimo uso, tanto da essere stato rilegato ex novo già al tempo di Rebora, con qualche rifilatura di troppo che ha troncato le parole più ai margini. Non soltanto per curiosità, occorre segnalare che l’edizione della Commedia è quella commentata dallo Scartazzini e rivista, per l’ottava edizione, dal Vandelli, pubblicata a Milano da Hoepli in terza tiratura riveduta e corretta nel 1922.
Se alcune postille, testualmente esplicative, si possono far senz’altro risalire a un utilizzo didattico e letterario (Rebora insegnò, tra l’altro, all’Accademia Libera di Cultura e Arte di Milano intorno al 1929 e al ginnasio del Collegio Rosmini di Domodossola nel 1933-34), molte altre chiose attestano un continuo uso personalissimo e meditato del poema dantesco come viatico alla piena conversione di fede, anche consuetudine, conforto, alimento di un sempre più mistico approfondimento. Un termine di paragone sono i messali del poeta rosminiano, similmente postillati, anche se è la Commedia che potrebbe rivelarsi il primo vero tramite con cui egli giunge al «grande codice» della Bibbia.
Sfogliare l’edizione della Commedia significa accorgersi di un crescendo di tensione fino al canto più tormentato dalle postille, il XXXIII del Paradiso: nei margini troviamo concetti e idee che sostanziano molte opere della tarda maturità di Rebora. Per segnalare una prova, registriamo che a fianco del verso dantesco dedicato al «termine fisso d’etterno consiglio» la tormentata scrittura reboriana annota spunti in seguito ripresi nel noto inno L’Immacolata e in altri componimenti: «Per te, com’Eva si risolve in Ave, / in Amor Roma suo mister rivela, / dov’è materna Chiesa che dà pace». Il celebre esordio messo in bocca a san Bernardo, «Vergine Madre, figlia del tuo figlio», è sottolineato da Rebora in penna nera e compreso, con una grande freccia e con un vigore che non ha riscontri nelle altre postille alla Divina Commedia, entro due cerchi concentrici in matita rossa, che egli usa nei passi dove avverte una presenza positiva, divina. Qui arriva addirittura a ricoprire di quel colore, e così unire, le parole iniziali dei versi 1 e 2: «Vergine… umile…» e questo centro di gravità spirituale è unito, con una freccia, all’annuncio dantesco di «quella che può aiutarti» fatto al v. 148 del canto precedente, nella stessa pagina del volume; mentre un’altra freccia cromaticamente infuocata rinvia allo spazio tipografico delle note di Scartazzini e Vandelli dove giganteggia, sempre in rosso, il titolo di «Immacolata Concezione» scritto per attestare una presa di coscienza e un’adesione a un dogma ecclesiastico tanto caro agli anni della sua conversione. In questa visione dell’empireo celeste dove «vinca tua guardia i movimenti umani» (v. 37) Rebora rimarca «Nulla più conta… né genio né scienza né amori né odi terrestri. Solo conta la… umiltà», con un forte accento autobiografico al riscatto morale tramite il voto di umiltà, realizzato grazie all’esempio e al sostegno umano di figure vicine. Infatti in principio di canto aggiunge un riferimento alla «maternità spirituale di Beatrice redentrice di DaRebora dante Commeda ASICnte che si redime» con un rinvio a una successiva postilla, «Ricordare che nel tempo stesso Maria è M[adre] di Dio e…», che purtroppo s’interrompe per uno strappo del foglio. Soprattutto è rilevante, al v. 2, «alta» sottolineata con un cerchio e con la chiosa «alto volo, destino nostro divino, non folle volo». Quest’aggiunta è fondamentale per interpretare la lettura religiosa del poema sacro nel segno dell’esperienza personale di chi ha perduto la rotta e nel segno salvifico della «Bontà infinita [che] ha sì gran braccia» che leggiamo in una postilla nel margine superiore della pagina seguente e che ritorna in una lettera al fratello Piero del 12 novembre 1950: «La poesia… intesa in modo totale, ossia cattolico, è la bellezza che ha sì gran braccia». Non a caso in un altro margine, fra le note di commento e il testo dei versi 16-17 («sua disianza vuol volar sanz’ali. / La tua benignità non pur soccorre»), Rebora rimarca la centralità mariana della sua concezione del Paradiso di Dante: «chi cerca senza di Lei è come se volesse volar senz’ali = “Qui petit sine ipsa, sine alis tentat volare” (S. Antonin.)», distinguendo il desiderio (sottolineato in blu) «= delle passioni (fine nostra)» dalla desianza (rimarcato in rosso) «= dello spirito (vita eterna)». Tra l’altro, il v. 146 di Par. XXXII – «movendo l’ali tue credendo oltraltri» – è sottolineato in matita blu ed è ulteriore spunto di riflessione sulle «sole forze umane di Ulisse», come si legge nel margine esterno.
Mettendosi in dialogo e talvolta anche in contrapposizione con gli altri commentatori, fin dagli stessi Scartazzini e Vandelli, Rebora ha una comprensione del poema dantesco non solo intellettuale e letteraria, bensì proiettata verso una vera e propria metànoia, che prende le mosse proprio dalle «tante fiamme» e dall’«alto mare», tutti sintagmi e versi significativamente annotati nel canto infernale, il XXVI, in cui Ulisse rievoca il «folle volo». Quando l’eroe classico inizia il suo racconto, Rebora rimarca in un margine superiore: «l’io al posto di Dio», pur dopo aver postillato che «Dante riconosce e apprezza, come è giusto (gratia non destruit) i doni superiori dell’intelletto e della volontà, ma sente e addita la responsabilità davanti a Dio (e agli uomini) nel loro uso e fine (cfr. oggi in tutti i campi!)». In un canto dove l’uso della matita blu è prevalente – colore usato per segnare il peccato come esistenza senza Dio –, per riquadrare i tre celebri versi 118-120 usa invece il rosso: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza» (corretto in «conoscenza»), con richiami al secondo e terzo libro della Genesi e con una lunga postilla a «semenza»: «= Dignità della natura umana (ma a immagine di Dio!). Però per il guasto originale: miseria dell’uomo! Invece grandezza del cristiano: Agnosce, christiane, dignitatem tuam! Vermi nati a formar l’angelica farfalla».
Qui Rebora legge Dante in una chiave letterariamente acritica, trovandosi così a tentare quasi di battezzare il mito classico di Ulisse. Ed è emblematica la sottolineatura di «folle volo», naturalmente in matita blu, che pone quell’arditezza umana in contrasto con l’annotazione nel colore rosso della grazia dell’«alto volo» del Paradiso. Si compie così una proiezione interiore dell’immagine di uomo «naufrago della vita», come Rebora si sentiva all’inizio del proprio cammino esistenziale. L’Ulisse di Dante per il poeta convertito novecentesco è paradigma fondamentale della costante ricerca umana solo individualista, non aperta all’assoluto, è per lui l’effigie che rappresenta il modello negativo necessario per l’identificazione autobiografica dei peccatori nella presa di coscienza di una purificazione agli antipodi del «folle volo». E l’attenzione reboriana a questa contrastata figura, letteraria e metaforica, è documentata da altre postille, anch’esse sorprendentemente indicative e ancora inedite, consegnate a un’edizione Zanichelli del 1926 dell’Odissea nella traduzione di Ettore Romagnoli. Già nel canto iniziale, in margine alla versione «lungi vagar lo fa dalla patria», il poeta annota: «via smarrita di Dante» e «Ulisse è l’umanità…»; mentre al piede di un pagina del canto XXIII si legge «Guai se impera Afrodite senza Artemide!»
Riaprendo le pagine del canto XXXIII del Paradiso, sopra «termine fisso», oltre all’aggiunta «da Eva ad Ave», si può notare una freccia che indica questa postilla: «predestinata da Dio ab aeterno a esser Madre del Redentore e quindi = la donna = Beatrice = madre dei “Redentori”!» In questa chiosa sembrano coagularsi la visione di Clemente Rebora circa la presenza femminile-materna che salva, in una prospettiva psicologica e spirituale che dalla madre reale conduce a quella celeste anche attraverso la sublimazione delle figure di donne, Sibilla Aleramo e Lydia Natus, amate dall’uomo Rebora-Ulisse in gioventù. Anche nei quaderni di lezioni degli anni della cosiddetta conversione si può leggere che «Maria è la nuova Eva. Eva = donna del dolore e della morte. Maria = madre della vita, della virtù e del bene… Eva si rovescia nell’Ave alla donna della salute». Si tratta di rispondenze ineludibili, che illuminano ancor più il fatto che tra il «folle volo» spiccato dal celebre verso dell’Inferno e il «così alto volo» nei cieli stellati del Paradiso si tende con forza l’arco dell’esperienza letteraria e spirituale di Rebora, con una tramutazione anche cronologica dell’atto metaforico del volare, caro alla sua poesia. In più, Rebora risolve l’antinomia apparente tra dottrina e poesia del poema di Dante attraverso un’unità vissuta in prima persona mediante una fusione provocata dalla sua spiritualità incandescente; un’unità tentata religiosamente anche tra le diverse esperienze della sua tormentata esistenza.
È non senza significato perciò che l’«Amore che muove il sole e l’altre stelle» torni due anni prima della morte come citazione al centro della poesia dedicata a Ezra Pound. In quegli anni un testimone ricorda che nella sua stanza, ingombra di libri e dei suoi tipici foglietti d’appunti, teneva sul tavolino «un grande volume del Paradiso di Dante sempre aperto alla meravigliosa pagina della Madonna di Dorè».
Roberto Cicala
Matita rossa e matita blu per Dante, in “L’Erasmo”, 8 (2002), pp. 63-69.
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