Per gentile concessione dlel’autore riproduciamo di Roberto Cicala il saggio La volontà di Ulisse. In margine alle postille inedite di Rebora alla Commedia e all’Odissea, in Clemente Rebora. Un poeta cristiano di fronte alla modernità, Edizioni Feeria-Comunità di San Leolino, Panzano in Chianti 2011, pp. 199-208.
«Per lui non è scritto il ritorno» è un verso del primo canto dell’Odissea che Clemente Rebora sottolinea e fa suo in un momento decisivo della crisi spirituale per la «scelta tremenda» di «dire sì dire no a qualcosa che so».[1] Il «professoruccio filantropo»,[2] che anche nelle letture dei classici usa la matita rossa e blu di scuola per segnare i passi più importanti, incontra nella storia e nella dimensione di Ulisse la stessa sua nostalgia di una patria, non geografica, alla quale egli avverte di tendere. Postillando l’edizione Zanichelli del 1926 in sue mani[3] rinvia, nel margine sottostante della pagina, al «significato poi dantesco» aggiungendo tra parentesi «e mio»,[4] con tanto di punto esclamativo. Sono però gli interrogativi a imporsi di più sul quarantenne poeta milanese che, dopo la metà degli anni venti e probabilmente successivamente alle annotazioni sull’Odissea,[5] rilegge e commenta altre pagine dell’eroe greco, anche per preparare argomenti da proporre ai suoi stimolanti allievi: lo fa frequentando sempre più assiduamente il canto XXVI dell’Inferno dantesco, non a caso uno dei più tormentati da annotazioni autografe della sua Commedia,[6] in cui segna in modo appassionato il «folle volo» – di colui che è l’archetipo dell’uomo in costante ricerca – con il colore rosso a indicare ciò che è positivo e con il blu per gli aspetti da biasimare e condannare. Le «tante fiamme» e l’«alto mare» sono tra i sintagmi e versi più sottolineati e postillati del canto: è una proiezione interiore dell’immagine di uomo «naufrago della vita»,[7] come anche Rebora si sente.
Ulisse è paradigma fondamentale della ricerca e della volontà di realizzazione: è effigie che giganteggia rappresentando un modello necessario per il poeta milanese che tuttavia, da un iniziale percorso di identificazione personale, prende coscienza di una distanza, di un bisogno di purificazione agli antipodi del «folle volo», perché inteso come atto individualista, non aperto all’assoluto cui egli tende da sempre.[8]
«Arcanamente s’agita il mio volo»[9] aveva scritto nei Frammenti lirici, poco più di dieci anni prima, aggiungendo, tra i versi finali di quel libro poetico d’esordio :
Al nostr’occhio di lince
Anche la notte è vasta
per aguzzar lontano,
Al nostro polmon sano
Anche poc’aria basta
Per respirar profondo,
Se turbini con Dio
La volontà nutrita
Di ricrear nel mondo
Questa angoscia gioita,
Quest’impeto fecondo,
Questo veggente oblio:
Questa vita che è vita.[10]
L’intensità dello slancio e della «volontà» («nutrita», nel senso di «alimentata», come si legge nel commento ai Frammenti di Mussini, Giancotti e Munaretto, ai quali non finiremo mai di essere riconoscenti per il loro lavoro esegetico) «è comunque un valore sublime, degno delle cose divine»[11] ed è espressione di una volontà di «volo» che nasce dall’intelligenza. Ma non basta la volontà, non basta l’intelligenza: neppure quelle di Ulisse.
Nella pagina bianca precedente l’incipit del primo canto dell’Odissea, nell’edizione tradotta da Ettore Romagnoli con le belle incisioni classicheggianti di Adolfo De Carolis, Rebora ha lasciato al riguardo un’annotazione autografa quasi programmatica. Scrive: «Unica alleata vera di Ulisse è Atena (intellig.[enza] = umanità antica in Grecia [à] che può condurre all’eroismo stoico e storico, a lottare e non disperare – ma non all’eroismo “cristiano” umano – ad amare e sperare lavorando il Bene sempre».[12]
Nel margine postillato delle pagine ci imbattiamo così in una soglia che è una frontiera – dell’intelligenza e dello spirito – da attraversare con scelte di vita, grazie anche alla letteratura: seguendo le orme di Ulisse, come fa poi con Dante, Rebora percorre un itinerario in ascesa che parte da una coincidenza di visione, appunto nel segno della volontà dell’intelligenza, per poi divergere. Si specchia in Ulisse, nel suo ritorno: ma il ritorno del poeta dei Canti anonimi non è soltanto a una patria, sociale o interiore, affettiva o professionale; è invece il ritorno «dell’Uomo a Dio», dell’«Umanità al Fine», come leggiamo sempre in altre postille. Ulisse è infedele «a quella Vita cui pur tende – onde la perderà».[13] Così scrive Clemente in una di quelle note marginali con cui accompagna una lettura che non è mai di semplice servizio didattico per l’insegnamento. Sono infatti anni di lezioni e conferenze, spesso con il “Gruppo di azione per le scuole del popolo” (di cui è il timbro di possesso nell’edizione dell’Odissea): un’esperienza fondamentale per Rebora, che si converte di lì a pochi anni – al cattolicesimo, non alla religione, perché è religioso da sempre – anche grazie a quel movimento e ad alcune sue allieve.[14]
Ulisse, un mito che affascina l’uomo contemporaneo,[15] è per il poeta modello vivo di confronto, nel segno della letteratura e della cultura, sulla soglia della «scelta tremenda». Lo testimonia anche l’epistolario, con molte coincidenze di un corso su La donna e la vita tenuto probabilmente mentre legge l’Odissea. C’è così un momento in cui le annotazioni su Ulisse subiscono una prima svolta: il cambio di rotta avviene dopo l’incontro dell’eroe con i Feaci, un «popolo buono che diverrà popolo guida»[16]. Qui Ulisse «diviene, seppure ancora in maniera incompiuta, eroe positivo perché capace di azione, in quella prospettiva mazziniana e towianskiana»[17] secondo cui è «il primo uomo che accetta e non si lamenta più, ma agisce».[18] Leggiamo ancora: «Ulisse è un avventuriere, non un “missionario”, [un] liberatore / apost[olo]» perché «Ulisse non si libera (onde non può liberare – ma uccide) ma fugge sempre in cerca della Verità della Vita perché non è liberato dall’egoismo» (così un’altra postilla).[19] Ne parla anche in uno dei suoi corsi danteschi a Milano (secondo quanto riporta il quaderno di appunti dell’allieva Lina Lavezzari) quando, dopo aver esposto – quasi programmaticamente – la contrapposizione tra «folle» e «alto» volo, lascia trasparire uno scenario interiore autobiografico, tentando di ripercorrere e capire il cammino dell’uomo che, scegliendo con Ulisse l’opzione della vita (della volontà e dell’intelligenza), senza fede e senza umiltà, viene però colto dalla crisi e desidera cambiare».[20] Prendendo spunto dalla storia (spiegando che «ai periodi di grandi brame, come l’Impero, succede la macerazione, come nel Medio Evo»[21]), Rebora fa riferimento alla «nostra civiltà moderna, tipica di D’Annunzio», che «vuol andar sempre più oltre, osare»[22], quindi commenta la «simbolica Medusa» che «raffigura la delusione che succede al folle volo; e da essa la disperazione»[23], diretta conseguenza dell’illusione iniziale di Ulisse. Ma, osserva Rebora, alla «sfiducia del “folle volo” […] fa riscontro il C.[anto] V del Purg. come tipo di speranza, che conserva la fiducia anche in punto di morte nei peccatori»[24]. Lo afferma citando Buonconte da Montefeltro che, «vissuto sempre senza convinzione del folle volo, e all’ultimo non contentandovi, invoca con l’ultima parola Maria».[25]
La citazione inedita del professor Rebora mette in luce una successiva svolta, rappresentata dall’immagine femminile per eccellenza illuminata dopo le varie figure egoistiche omeriche unite dall’idea di «foemina» ben differente da quella di «donna». La «condizione essenziale» di quest’elevazione umana e spirituale è rappresentata dall’umiltà, l’unico stato dell’anima che, dove l’intelligenza da sola non può arrivare, «apre il varco alla corrente divina»[26]. Tuttavia, annota Rebora, «chi ha insegnato a Dante l’umiltà è Beatrice», quando «gli ha tolto il saluto»: grazie a questo insegnamento che il poeta fiorentino sarebbe «passato dal folle volo a l’alto volo, dal volo satanico al volo santo, da servo si è fatto libero».[27] è quanto si legge negli stessi appunti delle lezioni del 1929-1930 che adottano – riproducendo con molta probabilità una sottolineatura impressa da Rebora durante la spiegazione – un carattere calligrafico differente per marcare le parole «umiltà», «folle volo» e «alto volo». Segue una specificazione: «il folle volo è quello di Ulisse che si slancia per brama di potenza e di conquista, fidandosi alle sole forze umane»,[28] richiamando però anche Paolo e Francesca; l’«alto volo» è quindi diversamente chiarito come «il volo santo, che non tradisce la vocazione della vita»[29] (con riferimento a brani del Purg. XV, 52-57 e a Par. XXV, 49-50).
Se nella ricerca esistenziale di Rebora la poesia è la strada maestra – scrive nel Curriculum vitae «A verità condusse poesia»[30] –, non conduce a verità, secondo lui, la ricerca di Ulisse, ancora definito «naufrago della vita», eroe di una scelta senza quel ritorno sperato, è perché folle, cioè senza umiltà. È una visione che dall’Odissea traghetta il poeta in crisi nella Commedia, non senza confrontarsi con i modelli letterari e culturali del suo tempo, come il concetto di Superuomo, che viene contrastato come ideologia contemporanea degenerante e, soprattutto, chiusa in sé. Rebora in particolare distingue «l’uomo superiore» («colui che conduce, vive e attua in sé la volontà di Dio») dal «Superuomo» («che adopera le grazie di Dio per il proprio interesse»):[31] lo fa presentando il pensiero di Cavalcanti, ispirato alla corrente araba predominante ai suoi tempi e alla dottrina epicurea del padre. Inoltre chiama in causa Leopardi e D’Annunzio quali autori in grado di incarnare l’incapacità dell’uomo di essere un dio.[32]
Spiega Rebora: «Ecco il canto di Ulisse (Inf. XXVI), una delle chiavi a penetrare il pensiero di Dante: virtute e conoscenza = volontà dell’uomo in antitesi con al volontà di Dio, che esclude ed ignora. Questo concetto conduce al naufragio Ulisse, già in vista del Parad. Terrestre». Nel margine inferiore della pagina aggiunge: «La civiltà moderna ha preso l’ideale di Ulisse = il folle volo di Icaro = disarmonia con la volontà di Dio = ed insegna l’esperienza che pare arrivare e al suo fine non giunge […]».
In altro margine del canto aggiunge: «Come arriva Dante? L’aiuto a passare da una fase all’altra gli viene da Beatrice quando, vivendo ella la vita di armonia con Dio, la insegnò a Dante, inconsapevolmente; e comincia ad agire dopo la morte». Al v. 15 commenta il «senz’ali» di Dante postillando che «È il “folle volo” di Icaro – di Ulisse. L’umanità non può da sé raggiungere la vita soprannaturale, e neppure la felicità terrena, che vi ha fra esse correlazione. È attraverso Maria, per lo studio di come ella si comporta, la via di pervenire alla Vita eterna, di mettere alla luce l’anima». Non è senza un senso profondo che il canto più tormentato delle postille dantesche, insieme con il XXVI dell’Inferno del «folle volo», è il XXXIII del Paradiso, posto in contrasto dalle chiose reboriane dalla fine degli anni venti con «l’alto volo» di Maria, incontrando nei margini gli stessi concetti e idee che sostanziano molte opere della tarda maturità di Rebora, tra cui l’inno all’Immacolata.
Ulisse invece non ha creduto nella donna che poteva salvarlo: non le «foeminae» come Calipso o Circe, casomai Nausicaa o, naturalmente, Penelope.[33] «Ulisse non si libera (onde non può liberare – ma uccide), ma fugge sempre in cerca della Verità della Vita perché non è liberato dall’egoismo (esperienza del sesso subita e nobilitata come volontà di potenza)». A fianco delle parole rivolte da Ulisse proprio a Nausicaa («io ti scongiuto, o signora. Sei forse una diva? O una donna?») Rebora scrive: «oggi, io: una donna o una femmina?»[34] In questa chiosa sembrano coagularsi il percorso esistenziale e la visione femminile-materna, che diventa mariana, di Clemente Rebora, in una prospettiva psicologica e spirituale che dalla madre conduce alla Madonna anche attraverso la sublimazione delle figure femminili, solo in parte Sibilla Aleramo e in modo totale Lydia Natus, la sua Penelope, amata dall’uomo Rebora-Ulisse, all’interno della complessa ma coerente maturazione del suo itinerario interiore.[35]
Ora Rebora non vuol più mettere «l’io al posto di Dio», come sintetizza mirabilmente un’altra postilla della Commedia.[36] Nell’anno in cui esce l’edizione dell’Odissea tanto letta e postillata, il 1926, il 23 dicembre scrive a Bice Jahn Rusconi: «noi travagliamo (per avviare la vita delle anime) nella catacombe dello spirito, dell’umanità divina che dovrà via via affiorare».[37] è la sua parabola esistenziale che prende le mosse da un’«antichità ancor senza Dio» (in cui «unica alleata vera di Ulisse è Atena», appunto l’intelligenza) e approda alla «possibilità di una superiore Bontà, che rende realizzabile un «eroismo “cristiano” umano».[38] Francesco Mattesini ha richiamato «la mirabile sintesi poetico-religiosa che trasfigura e, per così dire, battezza, il mito di Icaro e di Ulisse, raccolta ed espressa nella celebre ardente: “Grazie, Signore, che solo basti al nostro volo”».[39]
«Chi non teme di soffrire il dolore per raggiungere il Bene, vince e salva la Vita!», annota Rebora, che in altra postilla elenca: «Circe = sfuggire al male, sentito come fatale e signore del mondo / Ulisse = affrontare il male con la violenza, e quindi rovina (cfr. Francesco) / Gesù, Signore della Vita = vincere il male col Bene, che solo è in verità». Il 10 settembre 1926 ancora a Bice Jahn Rusconi scrive dell’importanza, nell’«ispirazione soprattutto della donna», di «indicare dove la vita più chiede e secondare l’azione quale conviene alle forze e al carattere dell’uomo che si sente chiamato a compierla. La missione di Beatrice; l’altra, è quella di Circe (è vero che Ulisse si liberò anche di questa, ma smarrì la via che conduceva a Beatrice, e la rotta della vita incontrò il naufragio nel gran mar dell’essere)». La lettera si può accostare all’autografo, letto all’inizio, a margine dei primi versi dell’Odissea: «Unica alleata vera di Ulisse è Atena (intellig.[enza] = umanità antica in Grecia [à] che può condurre all’eroismo stoico e storico, a lottare e non disperare – ma non all’eroismo “cristiano” umano – ad amare e sperare lavorando il Bene sempre», cui approderà.
Ora sa come superare il passo in cui si avverte che per Ulisse «non è scritto il ritorno»; per Rebora, dopo il naufragio come poeta e come uomo, quel ritorno c’è, verso la patria rappresentata dal cattolicesimo: un porto che sta per raggiungere, prima che il «Magnificat concluda il Miserere».[40]